primula

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Un segno di primavera

giovedì 12 aprile 2018

Mi dispiace Chiara, questa volta hai mancato di stile

Un po’ turbata, qualche sera fa, mi sono coricata con in mente le immagini del piccolo Leo, tre giorni di vita soltanto, postato sul profilo Instagram della mamma, Chiara Ferragni, con “filtri” che lo rendevano vagamente bullo con gli occhiali da sole, bersaglio di piccole frecce che si trasformavano in cuori e, infine, con nasino e orecchiette da orsetto. Ho provato orrore per come la madre ha deciso di presentare il suo cucciolo sui social network e, di conseguenza, ai media in generale e mi sono messa a leggere, per curiosità, alcuni dei commenti arrivati a mamma Ferragni (in totale erano più di 7mila). Una metà degli intervenuti notava l’oggettiva bellezza del neonato, l’altra però era molto critica e dura nei confronti della nostra influencer, la numero uno al mondo. In sostanza dicevano: è così piccolo, lascialo stare. Non esporlo. E, soprattutto, non conciarlo così. 


La tentazione di mostrare i propri bebè è molto forte nelle orgogliose mamme italiche e non solo. Ma non è giusto, a mio avviso, dare in pasto un bambino così piccolo e indifeso a un audience di quel tipo, per di più così “pagliacciato” (come scriveva un commentatore). Un conto è inviare un’immagine del genere del neonato agli zii lontani, un altro è la ribalta mediatica che l’essere il figlio della Ferragni e di Fedez porta con sé, a prescindere da eventuali fini commerciali, ancor più gravi. Cosa dirà Leo, quando sarà un po’ più grande, delle sue foto a tre giorni con simil Ray-Ban, frecce-cuoricini e fattezze da orsetto sul visetto addormentato? Mi dispiace. Quella che la stampa ci ha presentato come una manager che ormai guida un’impero da 30 milioni di euro, caso di studio ad Harvard e “trascinatrice” dell’economia italiana, si è rivelata una trentenne superficiale come tante. 


E quello che è ancor peggio è che i media, almeno quelli nazionali, non hanno neppure provato ad accennare all’opportunità o meno di pubblicare quelle foto da parte sua. E no. Perché Chiara Ferragni vuol dire anche rapporti e contratti milionari con i più prestigiosi marchi della moda e del lusso, che di quotidiani e magazine sono importanti inserzionisti. E allora tutti a osannare Chiara. A scrivere pezzi “zuccherosi” sul lieto evento e sul quanto è fortunato quel piccino. La morale è sempre quella. Se sei bella e famosa nessuno ha il coraggio di dirti che forse, almeno in un caso, sei stata una madre quanto meno avventata. Ti seguivo, Chiara, perché mi occupo di moda. Ma dopo le immagini di Leo a tre giorni, ho deciso di non seguirti più, banalmente per non mettere in imbarazzo il piccolo, che non è una borsetta, una calzatura o un capo di abbigliamento da “interpretare” a favore del pubblico. 

venerdì 12 gennaio 2018

Aspettando la pista di ghiaccio

Fra i ricordi più belli dell'inverno emergono quelli legati alla pista di pattinaggio del piccolo paese delle Alpi, da cui provengo. La pista viene realizzata tutti gli inverni dove nelle altre stagioni c’è il campo da calcio della località: un bel prato ad anfiteatro in una posizione centrale rispetto all'abitato, ai piedi della pineta.

L'obiettivo di tutti gli anni è che la pista sia pronta e in buone condizioni per le festività natalizie, quando in paese salgono i villeggianti dalla città. Ma questo purtroppo non sempre avviene: perché l'acqua che viene messa nel campo, all'interno di paratie, si trasformi in una lastra di ghiaccio perfetta ci vogliono le giuste condizioni atmosferiche. La temperatura deve scendere innanzitutto sotto lo zero termico, non essendo dotata la struttura di un sistema di raffreddamento artificiale.

L'attesa della pista di ghiaccio è sempre grande da parte mia e dei miei figli, quando andiamo al paese per Natale. "Chissà se quest'anno riusciamo a pattinare?", è la domanda ricorrente della vigilia. Li ho portati a pattinare che erano davvero piccoli e ci torniamo sempre con grande piacere. È bello affrontare la pista di ghiaccio, all'inizio insicuri e impacciati sulle lame, per poi trovare un certo equilibrio e muovere gli arti con sempre maggiore sicurezza, destrezza ed eleganza.

È bello dare la mano ai miei figli. Trovare la formazione perfetta per girare sulla pista: il piccolo all'interno, io al centro e la grande dalla lunga falcata all'esterno. Siamo tre ma siamo una cosa sola nei nostri momenti migliori sulla pista di ghiaccio.

Esiste pure una foto che ritrae me e la grande, allora piccolissima, che pattiniamo insieme in un'atmosfera che sembra magica. Si è fatta sera. La pista è illuminata dalla luce gialla dei riflettori. Io e la bambina con le guance arrossate siamo al centro della scena. Intorno a noi scendono minuscoli fiocchi di neve e noi abbiamo scolpiti sulla faccia lo stupore e la gioia pura di essere insieme, di muoverci sul ghiaccio non si sa bene come e di essere festeggiate solo per questo da candidi coriandoli, che danzano intorno a noi copiosi e implacabili. 


lunedì 4 settembre 2017

Stessa spiaggia, stesso mare

Mi sono convinta che ci sono delle situazioni estive che ti fanno capire con sconcertante evidenza quali sono le cose importanti nella vita. Il che non è poco, nello stato paranoico e confuso in cui molto spesso viviamo durante l'anno. Se hai almeno 40 anni e frequenti da almeno 15-20 anni lo stesso bagno nella stessa località di mare, sai che cosa intendo. Sbarcando ogni estate sulla "stessa spiaggia, stesso mare" trovi più o meno le stesse persone, con cui inevitabilmente scambi almeno qualche chiacchiera. Questa stagione ho ritrovato un signore di una certa età (80 anni?), ancora in forma, abbronzato e sveglio di testa. Da due estati compare in spiaggia senza la moglie, morta di tumore, ed è strano vedere solo la metà di quella che era una coppia. Ma questa è la vita. Il signore in questione non ha giustamente rinunciato alle vacanze al mare. Si è organizzato per venirci da solo, gestire la casa, il pranzo e la cena in solitaria. In spiaggia però trova i conoscenti di una vita, con cui chiacchiera e condivide, se è il caso, anche i suoi pensieri dopo la tragica perdita. Racconta di quando lavorava sulle piattaforme petrolifere in giro per il mondo. Stava via un mese intero, per poi rientrare a casa qualche giorno e ripartire. Il lavoro all'estero è stato importante per lui: gli ha permesso di vivere bene, fare le vacanze, togliersi qualche sfizio. Il figlio però non l'ha visto molto in quegli anni. Non ha potuto seguirlo nella crescita come avrebbe voluto. Una mancanza che ha cercato di colmare occupandosi della nipote. Appena ha saputo del suo arrivo ha provato a capire se poteva andare in pensione ("Allora avevo solo 52 anni e mi vergognavo ad andare in pensione, come si fa?")  per poterla curare, insieme alla moglie, senza ricorrere a tate. Così ha fatto e quando parla della nipote, oggi quasi trentenne, gli si illuminano gli occhi. Da questa semplice storia, che può essere la storia di chiunque, ho capito un paio di cose fondamentali: il lavoro è importante, ci mancherebbe, ma lo sono anche gli affetti, il prendersi cura. Anche quando si perde una persona cara, la persona con cui si è condivisa la vita, bisogna cercare di andare avanti e fare le cose che ci piace fare: andare in vacanza al mare, nuotare, immergersi, trovare una grossa conchiglia e regalarla a un bambino. Mio figlio questo signore lo ricorda, infatti, per la grande conchiglia che gli ha regalato. Io per gli involontari insegnamenti. 

sabato 29 luglio 2017

Della serie frasi che mi hanno colpito

A volte - nella incessante ricerca di rimuovere la sofferenza - ci si tormenta di più. Magari una sana accettazione di un momento duro può essere una rinascita. (Dario Brunori, in arte Brunori Sas)

venerdì 30 giugno 2017

La moda etica in Italia c'era già

Oggi si parla tanto di moda sostenibile, di processi in grado di integrare etica ed estetica e di innovazione responsabile nel fashion. Pare che i Millennials siano molto più interessati alla sostenibilità ambientale e sociale rispetto alle generazioni precedenti e poiché questa è la generazione dei consumatori di oggi e di domani, da parte delle aziende della moda e del lusso - grandi o piccole che siano - si è scatenata la corsa a fare della sostenibilità il nuovo asset della crescita. Ci sono convegni, vengono commissionate ricerche e pullulano le iniziative sul tema. Però c'è qualcosa che non torna. In Italia, almeno, avevamo una filiera del tessile-abbigliamento dagli standard molto elevati nei confronti del rispetto dei diritti dei lavoratori e della salvaguardia del territorio in cui le attività, sia esse di tipo artigianale che industriale, si svolgevano. Avevamo (e abbiamo) leggi su leggi che regolano la condotta delle imprese e pure avevamo (e forse abbiamo ancora) imprenditori illuminati, legati al territorio e alla comunità. Avevamo anche i fantastici distretti della moda!

Eppure alcuni decenni fa, in nome del profitto, abbiamo scelto di delocalizzare e nel contempo di non salvaguardare le nostre produzioni, mettendole sullo stesso piano di quelle a basso costo e, di conseguenza, scarse garanzie di sostenibilità, provenienti, ad esempio, dall'Asia. Ora ci accorgiamo che il tessile-moda è spesso un'industria "macchiata di sangue", come ci ricorda la tragedia del Rana Plaza avvenuta nel 2013, quando nel crollo di un edificio in cui si confezionavano capi per conto di noti marchi internazionali della moda a basso prezzo, morirono alla periferia di Dacca, in Bangladesh, 1.138 persone e altre 2.500 furono mutilate o ferite. 

La verità è che si è smantellato con troppa facilità e rapidità un sistema moda basato su significative conquiste e sulla sensibilità degli imprenditori, a favore del far west del low cost, di cui negli ultimi due decenni abbiamo celebrato le aperture di negozi e i trionfi. Ma ora sembra che il mercato chieda esattamente quello che in Italia eravamo così bravi a fare ed è disposto a pagare per questo: capi di qualità, fatti di materie prime ecologiche come la lana, utilizzando sostanze il meno possibile tossiche per il consumatore finale e inquinanti per il territorio. Il fatto di avere una legislazione di un certo tipo e sempre pronta ad alzare l'asticella in fatto di tutele ci aveva messo già anni fa nelle condizioni di realizzare una moda etica. Naturalmente passibile di miglioramenti nelle performance, ma già caratterizzata da buoni livelli. Ora accade che la moda etica sia di moda. Intanto però noi significativi pezzi di quella prestigiosa filiera del tessile-abbiglimento li abbiamo persi per strada. Che peccato! 




martedì 27 giugno 2017

Caccia alla milanese chic

Se la parigina chic per eccellenza è Inès de la Fressange, modella, stilista e icona di stile, che ha dato alle stampe "La Parigina - Guida allo chic" e "Come mi vesto oggi? Il look book della Parigina", in cui dà consigli alle donne su come vestirsi per essere sempre impeccabili e "stilose", chi fra le signore meneghine, di origine o di adozione, meriterebbe oggi il titolo di milanese chic? Prima di lanciare il sondaggio, bisognerebbe però chiarire in cosa consiste esattamente la milanesità quando si parla di stile. Molti hanno provato a descrivere questa attitudine, anche in tempi recenti, quando le giornaliste di moda, che per lavoro frequentano le fashion week di tutto il mondo, si sono accorte della speciale eleganza che accomuna le milanesi invitate dagli stilisti alle loro sfilate in città. Ne sono nati articoli, decaloghi e addirittura guide. 

Quello che emerge, facendo una summa di questo materiale variegato e composito, è che la donna in questione ha un'anima profondamente borghese, pratica e riservata. Alla milanese chic non piace ostentare. Ai tacchi preferisce la ballerina. Alla gonna il pantalone a sigaretta che arriva alla caviglia: è più comodo e svelto da indossare. E poi le sta bene il pantalone a sigaretta, perché è magra e tonica, a volte anche muscolosetta. Essere sovrappeso non va bene, per la salute e per l'estetica. Predilige le linee pulite e i colori classici. Sembra aver assimilato negli anni la lezione di stile di re Giorgio Armani, quasi senza accorgersene. Su questa base "neutra" innesta qualche "chicca". Magari pezzi full color di impronta active, quando si sente particolarmente in forma, giovane e dinamica, reduce da una vacanza consacrata allo sport e al benessere. Oppure un capo, un accessorio o un dettaglio etnico, che fa tanto viaggiatrice colta, quale in effetti è. O ancora un pezzo vintage di una griffe storica, che nella maggior parte dei casi non proviene da un negozietto specializzato, ma da un armadio di famiglia ed è questa la grandiosa prova di eleganza autentica, non improvvisata. La lady in questione potrebbe dire: "Non sono chic solo io, lo erano anche la mia mamma e la mia nonna". Ma è una frase che non pronuncerà mai. Rimane però come sottinteso. 

La milanese chic è una donna che fa tante cose nella vita, si dà da fare e non vuole rinunciare a niente. Per gli spostamenti in città predilige la bicicletta, mezzo ecologico e che dà l'opportunità di dare un contributo alla forma fisica, oltre le lezioni in palestra. Ma sale con aria disinvolta anche sul tram, dove si distingue per la classe: non grida dentro il cellulare in conversazioni infinite. Si limita a poche rapide battute. Con le amiche è bello chiacchierare tête-à-tête, sedute ai tavolini di una pasticceria di Brera o ancora più intimamente in un ampio living con tanta luce e vista su uno scorcio significativo della città più "stilosa" e segreta del mondo. Vi ritrovate nell'identikit o avente individuato chi potrebbe incarnare la nostra Inès? La ricerca alla milanese chic per eccellenza è aperta.

giovedì 4 maggio 2017

Soggetto per un romanzo

Visto che pateticamente mi diletto a sognare un futuro da scrittrice, ho elaborato il soggetto di un romanzo. Ve lo propongo qui sotto. Si accettano commenti, pareri, idee.


Per ragioni fortuite sono entrata in possesso della trascrizione (fatta da una nipote) delle lettere originali che un uomo della Valchiavenna, emigrato in Argentina alla fine del 1924, ha mandato alla moglie e ai due figli piccoli rimasti al paese. Le lettere sono datate dal 1925 al 1935 (all'inizio sono più frequenti, poi si diradano) e permettono di ricostruire la vicenda di Gilberto Tacchini, emigrato in Argentina, come altri suoi parenti e compaesani, per far fronte ai debiti della famiglia e cercare fortuna. Nonostante Gilberto si sposti di continuo per fare lavori temporanei, umili e pesanti (nei forni, dove si cuociono mattoni, oppure alla "coseccia", ossia alla raccolta del mais e del lino), all'inizio è ottimista. Manda spesso soldi a casa. E' convinto che in Argentina si possa vivere meglio e chiede e spera che la famiglia lo raggiunga presto. Nelle lettere successive si colgono, tuttavia, segnali di difficoltà e disagio. Nel 1929, con la crisi economica mondiale, l'Argentina sprofonda nella miseria e Gilberto Tacchini non riesce più a trovare lavoro: non manda più soldi a casa e diventa impossibile per lui racimolare quelli necessari per il viaggio di ritorno. Nel frattempo la moglie, Giuseppina Pilatti, rimasta in Valchiavenna, in virtù del fatto di essere figlia di un ferroviere, ottiene un lavoro in ferrovia al casello. Ha una relazione con un uomo del posto e, dopo una gravidanza tenuta nascosta, intorno al 1930 partorisce un bambino morto. Con la speranza di non creare scandalo al paese e con la complicità della suocera, che vive con lei, cerca di dargli sepoltura di notte nel cimitero di Campo di Novate Mezzola. Le due donne vengono viste e denunciate. Non vengono condannate ma la giovane perde il posto in ferrovia. Continua la relazione con l'uomo, anche perché questi rimane l'unica fonte di sostentamento per la famiglia. Da questa relazione, ormai stabile e consolidata, nel 1934 nasce un bambino e nel 1940 una bambina. L'ultima lettera del marito Gilberto Tacchini è datata 7 luglio 1935. Il silenzio che segue testimonia probabilmente la scoperta della verità da parte dell'uomo e la delusione che prova. Molti compaesani si trovano, infatti, in Argentina e sono in contatto tra loro. E' emigrata, fra l'altro, la sorella di Gilberto, Maria, che lui detesta. Non hanno scambi e, quando lei ritorna nel 1932 in Valchiavenna, Gilberto non vuole che frequenti sua moglie. In paese si vocifera che sia tornata con la sifilide. Si ammala e muore di lì a poco. Anche il cognato Emilio Pilatti, fratello della moglie, si trova in Argentina dal 1913 e sembra che riesca a fare fortuna, come i fratelli Ettore e Achille che lo raggiungono in seguito. Anche con loro, tuttavia, non ci sono rapporti. Gilberto Tacchini rimane un uomo solo, isolato e testardo, la cui unica colpa è forse però solo quella di aver sbagliato i tempi del viaggio della fortuna. Muore di stenti in Argentina nel 1942, all'età di 47 anni. Nello stesso anno Giuseppina Pilatti, diventata ufficialmente vedova, sposa il padre dei suoi ultimi due figli. Le lettere di Gilberto Tacchini ritrovate dalla nipote (figlia del secondo figlio avuto da Giuseppina Pilatti con Gilberto Tacchini) permettono a quest'ultima di conoscere e apprezzare in qualche modo il nonno, di cui in famiglia non ha mai saputo nulla, se non che era emigrato e morto in Argentina.

I personaggi principali sono Gilberto Tacchini e Giuseppina Pilatti.
Per entrambi la motivazione è sopravvivere e provvedere alla famiglia.
I mezzi che hanno a disposizione sono molto diversi, trovandosi l'uno emigrato in Argentina e l'altra sola con i figli e la suocera al paese in Valchiavenna.
La posta in gioco è la vita stessa.
La storia di entrambi è raccontata dal narratore in modo speculare al di qua e al di là dell'Oceano ed è scandita dalla trascrizione fedele di alcuni passi delle lettere che Gilberto manda a Giuseppina.

Ne vorrei trarre un affresco di quel periodo, narrato in modo avventuroso e coinvolgente, un po' alla Isabel Allende, tanto per avere un riferimento che apprezzo per questo genere di storie.