Oggi si parla tanto di moda sostenibile, di processi in grado di integrare etica ed estetica e di innovazione responsabile nel fashion. Pare che i Millennials siano molto più interessati alla sostenibilità ambientale e sociale rispetto alle generazioni precedenti e poiché questa è la generazione dei consumatori di oggi e di domani, da parte delle aziende della moda e del lusso - grandi o piccole che siano - si è scatenata la corsa a fare della sostenibilità il nuovo asset della crescita. Ci sono convegni, vengono commissionate ricerche e pullulano le iniziative sul tema. Però c'è qualcosa che non torna. In Italia, almeno, avevamo una filiera del tessile-abbigliamento dagli standard molto elevati nei confronti del rispetto dei diritti dei lavoratori e della salvaguardia del territorio in cui le attività, sia esse di tipo artigianale che industriale, si svolgevano. Avevamo (e abbiamo) leggi su leggi che regolano la condotta delle imprese e pure avevamo (e forse abbiamo ancora) imprenditori illuminati, legati al territorio e alla comunità. Avevamo anche i fantastici distretti della moda!
Eppure alcuni decenni fa, in nome del profitto, abbiamo scelto di delocalizzare e nel contempo di non salvaguardare le nostre produzioni, mettendole sullo stesso piano di quelle a basso costo e, di conseguenza, scarse garanzie di sostenibilità, provenienti, ad esempio, dall'Asia. Ora ci accorgiamo che il tessile-moda è spesso un'industria "macchiata di sangue", come ci ricorda la tragedia del Rana Plaza avvenuta nel 2013, quando nel crollo di un edificio in cui si confezionavano capi per conto di noti marchi internazionali della moda a basso prezzo, morirono alla periferia di Dacca, in Bangladesh, 1.138 persone e altre 2.500 furono mutilate o ferite.
La verità è che si è smantellato con troppa facilità e rapidità un sistema moda basato su significative conquiste e sulla sensibilità degli imprenditori, a favore del far west del low cost, di cui negli ultimi due decenni abbiamo celebrato le aperture di negozi e i trionfi. Ma ora sembra che il mercato chieda esattamente quello che in Italia eravamo così bravi a fare ed è disposto a pagare per questo: capi di qualità, fatti di materie prime ecologiche come la lana, utilizzando sostanze il meno possibile tossiche per il consumatore finale e inquinanti per il territorio. Il fatto di avere una legislazione di un certo tipo e sempre pronta ad alzare l'asticella in fatto di tutele ci aveva messo già anni fa nelle condizioni di realizzare una moda etica. Naturalmente passibile di miglioramenti nelle performance, ma già caratterizzata da buoni livelli. Ora accade che la moda etica sia di moda. Intanto però noi significativi pezzi di quella prestigiosa filiera del tessile-abbiglimento li abbiamo persi per strada. Che peccato!
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