primula

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Un segno di primavera

mercoledì 12 settembre 2012

Tempo di inserimenti (e di polemiche)

Tempo di inserimenti e infuria la polemica sulla via italica all'approccio alla materna. Qui sotto riporto un commentatissimo post uscito oggi sul blog la 27esima Ora del Corriere della Sera. La mia personale opinione è che questa collega mamma-giornalista abbia ragione. Per le madri che non lavorano l'"inserimento lento" non rappresenta un problema e magari può anche essere un gradevole momento di condivisione con il bambino e di "avvicinamento" alla scuola. Ma per le altre è un incubo: non in tutti i posti di lavoro comprendono le esigenze di chi ha figli piccoli e deve mandarli all'asilo con queste modalità graduali. Quindi, poichè la scuola dovrebbe garantire a tutti lo stesso servizio e trattamento, meglio una partenza decisa e lasciamo le aule alle insegnanti che sanno benissimo cosa fare. Inoltre, a mio parere, un bambino di tre anni ha già sviluppato le competenze e l'autonomia sufficienti per cavarsela alla grande in un luogo concepito per lui come l'asilo. E poi mi piace un sacco quello che scrive Natalia Ginzburg: "... la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio...". Brava Natalia, che togli ogni senso di colpa alle mamme che lavorano e che dagli istituti schizzano via il prima possibile alla volta dei mille impegni quotidiani.

I bamboccioni nascono all’asilo
Le follie dell’inserimento all’italiana


In questi giorni si aprono le scuole. L’inizio dell’anno scolastico dovrebbe essere un momento gioioso per i bambini e i loro genitori. Ma per quelle mamme e, più raramente, per quei papà che portano i loro figli alla materna l’ingresso nella scuola sarà un percorso a ostacoli, una specie di incubo kafkiano che si chiama inserimento. Il programma varia a seconda dell’Istituto ma, quasi sempre, prevede un paio di settimane  in cui i bambini devono adattarsi al nuovo ambiente progressivamente per non subire traumi e quindi vengono accompagnati da uno dei genitori in classe: all’inizio restano per una quantità di tempo minima che poi lentamente aumenta fino ad arrivare al tempo pieno. Un fenomeno tutto italiano che spesso obbliga la mamma o il papà persino a prendersi le ferie.

L’anno scorso è toccato anche a noi. Alla scuola materna di Via Mantegna a Milano hanno deciso a priori, senza nemmeno conoscere i pargoli, che i nostri due gemelli dovevano iniziare con un’ora di asilo al giorno e uno dei genitori doveva sempre essere presente. Ma io ero a Londra per lavoro e questo ha creato un primo problema visto che Eva e Bruno erano in classi diverse. Quale madre snaturata va all’estero in un momento così importante (sottinteso potenzialmente difficile/traumatico) per i propri figli? Come mai non si sente immensamente in colpa? Ma tant’è le maestre hanno dovuto far buon viso a cattivo gioco e accontentarsi della tata. Io mi sono presentata quando ormai la settimana di passione era quasi finita. Ero in classe con Bruno che giocava senza problemi, dopo cinque minuti ho cominciato a friggere, la mia presenza mi sembrava totalmente inutile. Così ho chiesto alla maestra se me ne potevo andare visto che il bambino era chiaramente “inserito”. Ma lei mi ha risposto scandalizzata di no, che la prassi era aspettare almeno una mezz’ora a prescindere da come si comportava il pargolo.
La domanda che vi pongo è la seguente: perché dobbiamo drammatizzare in questo modo un evento naturale e piacevole come l’ingresso alla materna? Cosa devono pensare i nostri figli? Che li stiamo portando in un luogo pericoloso dove forse non vorranno restare perché sicuramente è meglio passare il tempo con la mamma? E poi ci lamentiamo dei bamboccioni che a trent’anni stanno ancora a casa con i genitori! Ma se glielo abbiamo insegnato noi tra mille premure, paure, apprensioni supportate dalla psicologia da salotto che è tanto in voga.
E’ vero. Un tempo i nostri nonni si facevano pochi problemi. E spesso crescevano i figli a suon di sganassoni. Ma oggi siamo passati all’eccesso opposto. Alleviamo i nostri bambini come se fossero fatti di porcellana, crediamo che possano rimanere segnati a vita se perdono un giocattolo che gli è caro, li copriamo fino a farli scoppiare di caldo per paura che si ammalino (non a caso siamo il Paese delle correnti d’aria e della cervicale), chiediamo se e cosa hanno mangiato come se ci fosse il rischio che muoiano di fame. Non capiamo che il regalo più grande che possiamo fargli è l’indipendenza, la capacità di camminare con le proprie gambe, di non temere gli altri.
In altre parti del mondo non è così. L’inserimento non esiste. Ne ho avuto la prova venerdì scorso quando è iniziato il primo anno di materna nella scuola britannica di Milano. Io e mio marito abbiamo portato i bambini in due classi diverse dove sono stati accolti con grande serenità. Dopo cinque minuti Eva dipingeva, Bruno giocava. Ho detto a una delle due maestre: “Vedo che il bambino è tranquillo, io andrei”. Lei mi ha risposto: “Signora prima se ne va e più facile sarà il mio compito!”.  Non potevo credere alle mie orecchie. Tempo pieno da subito e senza drammi. Certo qualcuno piangeva. E allora la mamma rimaneva lì per qualche minuto in più. Ma poi se ne andava comunque e il piccolo dopo poco smetteva. Come è  normale che sia, tranne che qui da noi. Tanto che la direttrice della lower school, Angela Dean, si è sentita in dovere di fare ai genitori il seguente discorso:
“Uno dei nostri obiettivi è l’indipendenza. Sappiamo che l’approccio in Italia è molto protettivo. Gli mettete sempre voi il maglione, gli preparate la cartella. Per favore cercate di cambiare atteggiamento e rendete i vostri figli più autonomi. Altrimenti a scuola si aspetteranno da noi lo stesso comportamento!”.
E’ ora che noi mamme italiane impariamo ad allentare la corda, a essere più leggere, a non rimuginare. Una volta una mia amica mi ha confessato di provare un  immenso piacere ad avere i figli che piangevano non appena usciva di casa: “Mi fa sentire la più importante”. Senza rendersi conto di quanto così li rendeva insicuri, negandogli la libertà di crescere cittadini del mondo.




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